I caregiver sono importantissime figure assistenziali che aiutano i malati nelle loro attività quotidiane. Vivere a stretto contatto con un parente affetto da Alzheimer non è semplice, anzi, la malattia mette alla prova la forza e la resilienza di chi se ne deve prendere cura.

Alla luce di questo, il Gruppo Korian per celebrare la giornata mondiale dell’Alzheimer ha voluto dare vita a un percorso informativo completamente gratuito per diffondere il suo know-how in materia di demenze senili. Nel primo webinar abbiamo affrontato i primi passi da compiere quando viene diagnosticata la malattia d’Alzheimer. Oggi, in questo secondo appuntamento ospitiamo l’intervista alla Dottoressa Giusy Carrubba, Psicologa del Gruppo Korian e referente del progetto Korian “Alois Alzheimer Care”, un’iniziativa operativa da diversi anni all’interno di Positive Care.

Il progetto nasce con l’obiettivo di dedicarsi alle strutture di Korian in cui sono presenti nuclei Alzheimer, proponendo un modello di cura in cui poter dedicare attenzione agli elementi che influiscono sulle problematiche della demenza senile.

Con Alois abbiamo creato strutture per i pazienti di Alzheimer valorizzando gli ambienti terapeutici per ridurre i disturbi del comportamento, fornendo adeguata formazione all’equipe e introducendo terapie non farmacologiche.

Insieme alla Dottoressa parleremo del ruolo del caregiver e perché, e come, è opportuno che riceva tutto l’aiuto possibile durante la relazione di cura di persone con decadimento cognitivo. Caregiver: Aiutiamoli ad aiutare è il secondo webinar di Fermata Alzheimer On Line, disponibile gratuitamente on demand, previa registrazione al nostro portale www.spaziosalute.korian.it.

caregiver informale

CHI È IL CAREGIVER?

I caregiver sono di due tipi: quelli formali sono i medici e gli operatori, che hanno ricevuto una formazione completa su come gestire i malati di Alzheimer; e quelli informali che sono persone, che per necessità devono mettersi in una relazione d’aiuto dei confronti del malato, e non possiedono una formazione professionale.

Generalmente, il caregiver informale è un familiare del paziente, ovvero i figli, i fratelli o i nipoti, che si ritrovano a dover affrontare una situazione estranea e gravosa.

Questa tipologia di caregiver fornisce assistenza al malato di Alzheimer in ogni istante della giornata e deve essere sempre disponibile: questa condizione è fagocicante e spesso chi si prende cura di un familiare malato si sente travolto dal peso della sua malattia. A questo, si aggiunge spesso la difficoltà nel gestire in modo corretto la relazione con il malato e altri fattori come la stanchezza mentale, emotiva e fisica anche a lungo termine.

COME SI RISPONDE ALL’AGGRESSIVITÀ DEL MALATO?

Per istinto di protezione i familiari sono spesso iperprotettivi nei confronti del malato, soprattutto nei primi stadi della malattia. Successivamente la stanchezza potrebbe far sentire la propria pressione e potrebbe avere effetti deleteri se viene intercettata con troppo ritardo o senza il supporto di un professionista. I caregiver sentiranno un calo della prestanza fisica, ma anche alterazioni psicologiche che possono portare a stati di ansia e depressione. Si innesca dunque un circolo vizioso: aumentando il carico di impegno del caregiver e il senso di stanchezza, egli sarà propenso a rivolgersi in maniera impulsiva e spesso errata nei confronti del malato. Sul familiare affetto da Alzheimer si riverseranno quindi la sua rabbia e frustrazione. Come è facile intuire, sarebbe meglio evitare questa situazione: dobbiamo sempre ricordarci che i malati di demenza senile percepiscono le emozioni negative del caregiver, ma non sono in grado di elaborarle, aumentando la frustrazione e l’irrequietezza e portando ad un incremento dei disturbi del comportamento. Questo processo di reciproca influenza negativa si chiama coazione a ripetere, precisa la Dottoressa Carrubba, ed è una spirale da interrompere al più presto e spesso è indispensabile rivolgersi ad un professionista.

I malati di Alzheimer vivono l’ultima fase della loro vita in cui eliminano controlli e filtri che hanno mantenuto per tutta la loro esistenza. L’aggressività è una reazione che coinvolge l’impossibilità di comunicare in modo efficace un disagio sentito. Se il paziente è aggressivo si può distrarlo e chiedergli come fare ad aiutarlo: non bisogna essere impositivi ma empatici nei suoi confronti. È importante comunicare in modo efficace con i malati di demenza senile, vanno compresi e ascoltati nel loro disorientamento. Serve un tono di voce pacato, parlargli vicino e faccia a faccia. Deve esserci un forte contatto visivo durante lo scambio comunicativo e rimanere calmi e razionali durante i momenti di aggressività e frustrazione del paziente.

COME RISPONDERE AL SENSO DI VUOTO E DESOLAZIONE?

Il non sentirsi riconosciuto dal proprio caro è doloroso ed è un sentimento difficile da affrontare. L’atteggiamento confuso dei malati, sicuramente stancante e desolante per il caregiver, è in realtà un loro tentativo di cercare conforto nel disorientamento. Forzare il riconoscimento suscita nel malato sentimenti di dolore e rabbia nei confronti di sé stesso.

COME REAGISCE IL CAREGIVER ALLA CONFERMA DELLA DIAGNOSI?

La diagnosi dell’Alzheimer è un momento importante per la famiglia del paziente e il supporto e la presenza dello psicologo è fondamentale. Questa figura media la situazione tra lo specialista che ha confermato la diagnosi e il caregiver e sostiene la famiglia nell’accogliere la malattia d’Alzheimer.

Dopo la diagnosi la famiglia del paziente deve affrontare un lungo e tortuoso percorso d’accettazione.

Il processo inizia con una prima reazione istintiva di negazione: trattandosi di una malattia ‘invisibile’, s tende a negare di aver accanto una persona cara malata di demenza senile. Spesso la famiglia dubita della competenza dello specialista e si vogliono sentire più pareri da altri medici.

Solitamente segue quindi uno stato di confusione del caregiver e di spaesamento: la certezza e la presa di coscienza della malattia comincia a maturare e il caregiver comincia a sentire il crollo emotivo e l’istinto iperprotettivo nei confronti del malato prende il sopravvento. Infatti, la paura nei confronti dell’Alzheimer porta a voler mettere il proprio caro in una campana di vetro lasciandogli poca libertà per compiere quelle azioni che è ancora in grado di fare in una fase iniziale della malattia.

Con il tempo chi si prende cura a domicilio di un parente malato sente la stanchezza e sviluppa rabbia verso sé stesso, e poi i sensi di colpa che se non elaborati lo accompagneranno per tanto tempo.

L’ultimo passaggio è quello dell’accettazione.

Durante tutto questo percorso è molto importante che il caregiver colga i campanelli d’allarme in tempo per poter chiedere aiuto professionale nei momenti di debolezza e di fragilità. Molti di loro non vogliono rivolgersi a uno psicologo ma questo causa che aspetti della loro interiorità rimangano irrisolti portando come esito ad atteggiamenti di fragilità e rabbia.

IL CAREGIVER HA STRUMENTI PER OGGETTIVARE IL SUO LIVELLO DI STRESS?

Lo specialista, in questo caso uno psicologo, è in grado di valutare la stanchezza del paziente attraverso delle scale quantitative sull’entità dello stress. Qualora il carico percepito sia pesante, si parla di caregiver burden: prendersi cura del malato diventa talmente importante e totalizzante che la stanchezza si manifesta in reazioni fisiche ed emotive considerevoli.

IL CAREGIVER COME PUÒ PRENDERSI CURA DI SÉ STESSO?

La malattia d’Alzheimer non colpisce il singolo paziente, ma tutto il nucleo familiare. Per questo è fondamentale che i caregiver possiedano gli strumenti adatti per gestire sé stessi, oltre al parente malato.

L’Alzheimer è infatti una “malattia sociale” che entra in una casa senza essere invitata e stravolge gli equilibri e i rapporti tra le persone. Tutto comincia a girare intorno alla malattia, e ognuno viene inevitabilmente toccato da questo nuovo componente della famiglia. Il consiglio che la Dottoressa Carrubba dà è quello di condividere il dolore, coinvolgendo tutte le risorse presenti. L’unione tra i familiari, infatti, serve a supportare il malato. Purtroppo, però, è molto difficile da raggiungere proprio perché questa malattia tende a far esplodere i rapporti e le dinamiche. Tutti i componenti dovrebbero fornire il proprio contributo e scambiarsi tra di loro durante la cura del parente malato; questa organizzazione permette di evitare estraniamenti e che un solo caregiver senta tutto il carico solo sulle sue spalle.

Durante la malattia il paziente entra in un mondo di cui nessun’altro può farne parte. Chi se ne prende cura deve rispettare questa sua condizione e non forzare un “ritorno alla realtà”. Contraddire o rimproverare un malato di demenza senile può aggravare il senso di disorientamento del proprio caro, nonostante le intenzioni del caregiver possano essere viste come un tentativo di reazione al suo spaesamento.
Bisogna ricordare che chi se ne prende cura deve andare oltre il “mondo” del malato e coglierne l’aspetto emotivo: l’Alzheimer non attacca la memoria legata alle emozioni, e se vogliamo stabilire un contatto con chi è malato possiamo – cogliere i suoi bisogni utilizzando anche strategie quali ad esempio l’uso della musica o, se credente, la preghiera-interpellare i suoi ricordi più profondi ad esempio con la sua canzone preferita o con una preghiera.

Per poter dare la migliore relazione d’aiuto, il caregiver deve chiedere prima di tutto aiuto per sé stesso per ricevere il supporto emotivo e psicologico di cui ha bisogno. Questo primo passo rompe la spirale autoalimentata del dolore e della frustrazione sia del malato, sia di chi se ne prende cura. Le regioni mettono a disposizione misure per alleviare il carico dei familiari. In Regione Lombardia, ad esempio, è disponibile il servizio di RSA Aperta: questa misura offre aiuti a domicilio a chi sta combattendo contro l’Alzheimer e necessita di un supporto psicologico.

IL COVID QUALI PROBLEMATICHE HA SOLLEVATO?

La pandemia ha aperto scenari difficili da affrontare, ad esempio ha aumentato la solitudine psicologica del caregiver aggravando la sua posizione. Gli studi recenti e i dati raccolti fanno riflettere: chi si prende cura di familiari malati sono per la maggior parte donne e purtroppo un numero significativo di loro ha smesso di lavorare per poter prendersi cura del proprio caro durante la pandemia. Il Covid, infatti, ha isolato intere famiglie e creato (o rafforzato) le distanze, l’ansia e lo stress. In questa situazione, trovare conforto o aiuti all’esterno delle mura domestiche è stato pressoché impossibile.

A CHE FIGURE RIVOLGERSI PER AVERE UN SOSTEGNO?

Il primo professionista da consultare è il medico di base, ma per risolvere l’aspetto psicologico di supporto al caregiver serve un percorso con un counselor o uno psicologo. Esistono diverse associazioni territoriali e gruppi di auto mutuo aiuto, ovvero incontri in cui

si riuniscono tutte quelle persone che si trovano nelle condizioni di prendersi cura di un malato di demenza.

Confrontarsi con altre persone nella stessa situazione è rasserenante, perché la comprensione del dolore fa sentire meno soli.

Fondamentale diventa anche accettare l’aiuto che viene offerto da persone disposte a dare una mano al caregiver. Ammettere di provare paura e di aver bisogno di aiuto è importantissimo per trovare la forza ed essere presente per il malato. Non bisogna arrivare allo stremo, anzi, è opportuno accorgersi in tempo dei campanelli d‘allarme ed intervenire subito e prontamente.

C’È UNA VIA PER NON SENTIRSI ISOLATI DAL MONDO?

Il caregiver deve trovare tempo per sé stesso. Prendersi cura per dare cura a chi ne ha bisogno è la soluzione migliore. Perciò servirà cercare l’aiuto necessario e crearsi obiettivi raggiungibili e soprattutto darsi del tempo, senza essere rigidi con sé stessi per ritrovarsi e aiutarsi con professionisti e strutture professionali.

Ringraziamo la Dottoressa Giusy Carrubba per averci parlato della condizione del caregiver e delle sue sfide quotidiane.

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